domenica 30 dicembre 2012

L' ORTODOSSIA



Secondo S. Anastasio il Sinaita, uno dei primi Padri della Chiesa, "l'Ortodossia è il vero concetto di Dio e della creazione". L'Ortodossia, vale a dire la giusta fede, è la verità. Secondo la parola di Cristo: "Io sono la via, la verità, la vita", è la verità incarnata. Non possiamo trovare e conoscere la verità se non nella persona di Cristo: è dunque unicamente in Cristo che noi siamo salvati. L'Ortodossia - la Verità - si identifica nel Cristo che è la verità eterna. Poichè Dio-Trinità è la sorgente della verità, la Sua stessa esistenza è egualmente verità: questa verità è l'Ortodossia fondamentale ed eterna nella quale gli uomini sono chiamati a vivere. Dopo la sua caduta, l'uomo ha perso la grazia di Dio: è decaduto dalla comunione con Dio-Verità. I discendenti del primo Adamo, per ritornare all'unione primitiva con Dio, devono entrare in comunione con il nuovo Adamo: Cristo. La salvezza dell'uomo non è possibile che in Cristo. Ma quale verità ci offre Cristo? E dove questa verità è rimasta inalterata, pura e senza confusione? La risposta si trova nelle Sante Scritture che designano la Chiesa come "colonna e fondamento della verità (I Tim. 3, 15). La volontà di Dio è che tutti giungano alla Verità, vale a dire a Cristo (L'Ortodossia incarnata), nel suo Corpo che è la Chiesa. La redenzione dell'uomo, il suo ritorno e la sua unione a Dio e la sua salvezza finale non possono realizzarsi che nella Chiesa. 

La Chiesa è stata fondata nel mondo poichè in esso l'uomo realizza la sua esistenza e la sua comunione con Dio ed il resto del mondo. E nella Chiesa, l'uomo trova il senso della vita, del suo destino ed una reale comunione con gli altri uomini e l'insieme della creazione. Secondo l'Apostolo Paolo, la Chiesa è "il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose" (Ef. 1, 23). La salvezza che Cristo ci porta con la sua Crocifissione e la sua Resurrezione, continua nella Chiesa. Ecco perchè il Beato Agostino chiama la Chiesa "Cristo esteso in tutti i secoli". Questo significa che la Chiesa è Cristo, il Quale, anche dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione, continua a salvare il mondo con lo Spirito-Santo. L'umanità può continuamente trovare Dio nel corpo di Cristo, nella Chiesa. "Ecco perchè non possiamo separare Cristo dalla Chiesa. Non si può avere la Chiesa senza Cristo e non vi è Cristo fuori della Chiesa: senza di Essa non vi è nè verità nè salvezza. La verità fuori dalla Chiesa-Corpo di Cristo è simile a polvere d'oro nel fango. Non sono altro che raggi momentanei della presenza divina nella condizione dell'uomo decaduto, niente altro che la sua incapacità ad elevarsi e ad essere salvato". 
Il Cristo, Verità assoluta, ci conduce alla salvezza con la sua Chiesa e la Chiesa è fondata sulla Verità. Se si vuole avere un'autentica conoscenza di Cristo nella sua universalità e pienezza si deve necessariamente ricorrere alla Chiesa. "Fuori dalla Chiesa, anche nelle cosiddette eresie "cristiane", l'incapacità di trovare la pienezza del Cristo esclude la possibilità della salvezza". Ecco perchè le parole di S. Cipriano, vescovo di Cartagine, secondo le quali "fuori dalla Chiesa non vi è affatto salvezza", non sono esagerate. "Senza la Chiesa non possiamo conoscere il Cristo. Parallelamente, senza la Chiesa non possiamo comprendere nè le S. Scritture nè il tesoro della tradizione. 
E' evidente che, per conoscere Cristo nella Chiesa qui ed ora, occorre che la Chiesa esprima la verità di Cristo nella sua pienezza. Altrimenti il vero Cristo rimane sconosciuto e inaccessibile fintanto che l'uomo rimane lontano dalla salvezza, esatta condizione delle diverse eresie. E' unicamente nella Chiesa, nell'Ortodossia - vale a dire la Fede giusta - che l'uomo può veramente incontrare il Cristo ed essere salvato". 
La Chiesa, secondo uno dei Santi Padri, è "l'Assemblea del popolo ortodosso". La Chiesa vive attraverso i secoli e vive come l'Ortodossia. E' impossibile pensare la Chiesa senza l'Ortodossia. In questo contesto noi dobbiamo comprendere la Chiesa come tradizione: processo divino e movimento dinamico di Dio nella Storia. Padre Dumitru Staniloae, teologo romeno, dice che "l'Ortodossia è una condizione vivente, la vita incessante della Chiesa". "La Chiesa ha sempre considerato come sua responsabilità più elevata quella di conservare, nello Spirito Santo, la fede apostolica inalterata. Se la Chiesa non fosse rimasta fedele alla verità della sua esistenza, non potrebbe restare fedele a se stessa e non avrebbe potuto conservare la sua identità. Il contenuto e la sostanza della Chiesa è l'Ortodossia". Questa responsabilità che la Chiesa ha di conservare la verità attraverso la tradizione non è qualche cosa di astratto. 
La Chiesa veglia affinchè ciascuno dei suoi figli rimanga nella verità, nell'ortodossia e nell'ortoprassi (giusta fede e giusta azione). Ogni cristiano che si trovi nella Chiesa, non deve accontentarsi di credere semplicemente ma deve credere in Dio; e non soltanto credere in una potenza suprema ed invisibile, ma in Dio-Trinità che si rivela nel Cristo. Allo stesso modo, non deve semplicemente amare, ma amare il suo Dio amando il suo prossimo. "La Chiesa ha l'obbligo di conservare questa ortodossia di fede e di vita e di farne partecipare il mondo con la sua missione e la sua testimonianza". Coscienti di questo, possiamo facilmente comprendere perchè la Chiesa rigetta tutti coloro che hanno cercato di falsare o di rifiutare la sua verità, coloro che tentano di aggiungere o di togliere qualche cosa a quella verità che è Cristo stesso. La Chiesa li rigetta come eretici non perchè manchi di amore verso gli uomini ma, al contrario, a causa del suo eccesso d'amore per essi dal momento che fuori dalla Chiesa non vi è salvezza. La Chiesa non può compromettere nè sacrificare la verità e la fede ortodossa poichè perderebbe allora la sua identità e la sua cattolicità". "Il cristiano, in ogni tempo, deve accettare tutto ciò che il Cristo ha rivelato e che è trasmesso dal Suo Corpo (la Chiesa). Deve accettare la verità intera e non un "minimum di fede". "La cattolicità e l'ortodossia della Chiesa sono preservate unicamente nella plenitudine e nella totalità della fede. La Chiesa è cattolica nella misura in cui è ortodossa, poichè allora soltanto ha preservato la plenitudine della verità in Cristo". 
Sicuramente, oggi, siamo abituati a semplificare le cose e diventiamo indifferenti alla Verità della Chiesa. Superficiali e frivoli, ci arrestiamo davanti alle forme esteriori e proclamiamo che è sufficiente essere d'accordo su di una fede di base e che tutto il resto è inutile: i dogmi ed i canoni (regole del diritto ecclesiastico) sono stati fatti per gli uomini ed è necessario accantonarli "per carità". "Invece i dogmi, come regole di fede, non hanno distrutto l'unità della Verità. Hanno creato i limiti dell'Ortodossia, della Chiesa, in modo tale che la Chiesa - l'Ortodossia - possa essere distinta dall'eresia... Per la Chiesa, il fondamento della fede è unico: la pienezza della verità in Cristo". 
Per la Chiesa, una cosa è necessaria: conservare la verità inalterata così come l'ha ricevuta. Per questo scopo la Chiesa ha mobilitato tutte le sue forze per combattere l'eresia, il suo nemico più irriducibile. Le persecuzioni non hanno mai minacciato l'unità della Chiesa nè la sua capacità di conservare la verità. Al contrario, esse l'hanno a volte aiutata a radunare le sue forze, allorchè l'eresia l'ha turbata a diverse riprese. L'eresia, che altro non è che un mascheramento della verità, minaccia l'esistenza e la sostanza (ipòstasi) della Chiesa, minaccia la Verità tentando di separare e di dividere il Cristo. Ma un Cristo frantumato e diviso, che non sia l'intera "verità incarnata", non è affatto il Cristo salvatore. Gli eretici non rigettano la totalità della verità, non rifiutano affatto il Cristo: non l'accettano interamente ma soltanto in parte. Ario, per esempio, non rifiutava l'umanità di Cristo ma rigettava la sua divinità. Altri accettavano la sua divinità e rifiutavano la sua umanità. Ma nessuno di loro accettava il Cristo totale ed indiviso. "La verità della Chiesa è una pienezza, una unità che deve sempre dimorare indivisa e inseparabile. 

L'eresia, tuttavia, cerca di sottomettere la verità della tradizione ecclesiastica ai criteri dell'uomo decaduto. L'eretico si pone a giudice e criterio della verità rivelata. Per questa ragione, gli eretici di tutte le epoche sono stati dei razionalisti. Un eretico (divenuto tale poichè l'orgoglio lo possiede ed è pieno sino all'eccesso della fiducia nella sua sola ragione e nelle sue opinioni) si stacca da solo dalla grazia divina vivificante e tenta di salvarsi con le sue forze, con la "verità" che si è forgiato e non con la Verità donata da Dio. L'eresia conduce inevitabilmente ad una religiosità fondata sull'uomo". Anzi, la lotta di tutti i Padri contro le diverse eresie tendeva a conservare la fede nella sua integralità - cosa indispensabile alla salvezza - con lo scopo di mantenere ogni uomo nell'Arca della Chiesa, che è il corpo di Cristo. Si può dire che questa lotta è la loro più grande offerta alla Chiesa. E' per questo che essi non hanno mai consentito a coesistere con gli eretici in un "minimum" di fede nè a soddisfarsi di una parte di verità, ma hanno lottato per conservare tale fede intera ed indivisa poichè in tal modo erano Ortodossi - nella Verità - ed ottenevano la salvezza. Il metodo dei nostri giorni, secondo il quale si cerca di non menzionare le differenze per mettere in rilievo i punti comuni, non sarebbe mai stato accettato dai Padri come punto di partenza di una discussione teologica con gli eretici. Al contrario, essi hanno riunito dei Concili Ecumenici ed hanno lottato non per un "minimum" di fede, non per trovare ciò che gli eretici avevano in comune con essi, ma per ben mostrare ciò che li separavano, quali insegnamenti degli eretici deturpavano la verità e, di conseguenza, rompevano l'unità della fede. In altre parole, se la Chiesa si fosse mostrata indifferente alla conservazione della fede e della tradizione, tali e quali erano state ricevute, pure e inalterate, essa non sarebbe stata più la Chiesa di Cristo, il suo corpo, ma una qualunque organizzazione umana o politica, Essa cesserebbe di essere legata al Cristo, al suo sacrificio sulla Croce, alla salvezza.

lunedì 10 dicembre 2012

PREGHIERA DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMOS


Gesù Cristo, nome meraviglioso, la mia soavità, il mio desiderio, la mia speranza, Tu che ti sei fatto uomo per noi e hai disposto tutto con sapienza per la nostra salvezza! Io ti rendo lode, o Signore mio Dio, con tutto il mio cuore. Mi prostro di fronte a te con il corpo e l’anima e confesso i miei peccati. Chinati e ascolta la mia supplica e perdona la mia irriverenza.
Ho peccato, ho trasgredito, ho disubbidito, ti ho irritato e addolorato, te che sei il mio buon Signore, colui che mi nutre e mi protegge.
Non esiste male che non ho fatto sia con azioni, sia con la parola, consapevolmente o inconsapevolmente. Con la memoria e con pensieri maligni ho molto peccato. E per quante volte ho promesso di pentirmi tante ho compiuto le stesse cose. 
E' più facile contare le gocce della pioggia, che numerare i miei peccati. Sono arrivate ​​oltre la mia testa! Perché fin dalla mia giovinezza e ancora oggi ho aperto le porte della mia anima a desideri inappropriati, ho coltivato impulsi disordinati e sfrenati, ho sporcato la veste bianca del battesimo, ho inquinato il tempio del mio corpo e ho sporcato la mia anima con le passioni del disonore che ho commesso.
Tu conosci tutto - cosa sto a dirlo?
Il mio cuore è schiacciato e la mia anima affonda nella miseria, perché di fronte ai tanti peccati, non ho mai esibito alcun pentimento (...) per questo il mio animo è turbato, pieno di dolore e di tristezza (...).
Tuttavia non posso che sperare di salvarmi (...) sperando nel tuo amore.
Abbi compassione di me, o mio Dio, per la tua grande misericordia, perché io credo in te (...). Perdonami il malvagio e povero. Ascolta la preghiera del tuo umile servo (...) essendo uomo ho peccato. Come Dio perdonami (...) per la tua ineffabile bontà, misericordia e amore per gli uomini, per mezzo anche delle preghiere della gloriosa e sempre lodata, beata e piena di grazia, Signora nostra Theotokos e sempre Vergine Maria ... Amin.

San Giovanni Crisostomos

martedì 20 novembre 2012

PRECISAZIONI SULLA PRESENZA ROMANA DI PIETRO E SUL PRIMATO PAPALE a cura dell’archimandrita Angelo Altan



La tesi tradizionale nella manualistica cattolica afferma che Pietro fu vescovo di Roma per 25 anni e vi morì martire; impriogionato da Erode Agrippa nella Pasqua del 44 e liberato prodigiosamente, se ne va altrove, cioè ad Antiochia, dove si ferma per sette anni: lo affermano Origene, Eusebio di Cesarea, Teodoretto, Giovanni Crisostomo, Girolamo e Papa Leone Magno. Ad Antiochia, dopo il Concilio di Gerusalemme, ha un incontro burrascoso con Paolo. Scrive due epistole per i giudaizzanti d’Oriente, convertiti nella Pentecoste e muore a Roma in data imprecisata.
Altra notizia eusebiana, raccolta da San Girolamo, afferma: Simon Petrus secundo Claudii imperatoris anno, Romam pergit ibique XXV annos cathedram tenuit usque ad ultimum Neronis annum, e vi morì lo stesso giorno ed anno di Paolo: 29 Giugno del 67 d.C. La notizia ricorre pure nel Chronografo del 354, la cui indipendenza dalla fonte eusebiana non è però dimostrata e l’originale di Eusebio è perduto.
Comunque i 25 anni di episcopato romano di Pietro, dovevano ridursi a 23 ma soprattutto, occorre notare che la notizia ha tutto il sapore di una volta encomiastica filocostantiniana, messa in forma dall’aulico vescovo di Cesarea, Eusebio (+339) il quale, per di più si contraddice, perchè altrove mostra pure di condividere la tesi di altri padri della Chiesa, cioè che Pietro, dopo la prodigiosa liberazione dal carcere di Gerusalemme, andò a dimorare ad Antiochia. Ora la presenza di Pietro e la sua morte a Roma è indubitabile; le testimonianze patrisitiche e catacombali sono troppo imponenti, per poter asserire il contrario.
Anche tralasciando Eusebio, che però insiste in ben tre punti diversi della sua storia della Chiesa, abbiamo Dionigi a Corinto, Origene e Clemente ad Alessandria, Giustino ad Efeso, inoltre, in Gallia San Ireneo da Lione, in Africa Tertulliano.
Però quali sono i limiti della presenza romana di Pietro? Quale la data della sua morte? Ebbene, intanto esaminiamo il gruppo degli ultimi 10 anni in questione (57-67) e poi gli anni che vanno dal 40 al 56.
Nel 57-58 Pietro non è a Roma; Paolo da Corinto invia ai romani una monumentale lettera, vi saluta ben 28 persone nominativamente, e globalmente i membri di cinque chiese domestiche, ma di Pietro nessun cenno.
Nel 59-60 Pietro non è a Roma; Paolo vi arriva nella primavera del 61 ed apprende che i giudei del luogo non sono ancora stati evangelizzati (Act. 28;22); ma non sarebbe stato proprio questo il compito di Pietro?! (Gal. 2,7-8); dunque in questi anni Pietro non fu a Roma.
Nel 61-63 Pietro non è a Roma; Paolo in questi anni di cattività romana, scrive quattro epistole, di cui solo quella agli Efesini non porta i saluti di persone residenti a Roma; ma in quella a Filemone, invia i saluti di quattro persone, in quella ai Colossesi i saluti di sei persone, in quella ai Filippesi invia i saluti del proprio gruppo e di quelli di casa Cesare; ma di Pietro nessun cenno e neppure di un suo gruppo: silenzio assoluto.
Nel 64 Pietro non è a Roma; Paolo, reduce dalla Penisola Iberica, e ritornato in Italia, scrive con Barnaba la lettera agli Ebrei; manda a loro i saluti dei fratelli d’Italia; informa che Timoteo è stato liberato dal carcere; ma di Pietro, l’apostolo dei circoncisi, nessun cenno! N.B. l’incendio di Roma è del luglio successivo alla lettera, ma anche stavolta non c’è l’indizio della presenza di Pietro in Roma.
Nel 65-66 Pietro non è a Roma. Paolo vi arriva in catene, arrestato a Troade come malfattore; scrive la seconda a Timoteo nell’autunno del 66, dandogli tante notizie personali e dell’ambiente romano, e conclude “solo Luca non è con me”; ma per Pietro, assoluto silenzio!! Ma è mai possibile che tra i due corifei degli Apostoli, ci fosse una tale ruggine di antitesi (Paolinismo e Petrinismo – come farneticheranno i modernisti!) da far si che Paolo volesse ignorare Pietro con assoluta ostinazione??!!
Ed ora saliamo a ritroso, per partire dagli anni 40.
Nel 40 Pietro è a Gerusalemme con Giacomo; riceve la visita di Paolo fuggito da Damasco, dopo tre anni di Arabia (Gal. I , 18-19).
Nel 41 Pietro è a Jope, poi a Cesarea per far battezzare Cornelio, poi a Gerusalemme per rendere conto agli Anziani ed alla comunità; frattanto arrivano notizie da Antiochia che anche là, il Vangelo è accolto dai Gojm.
Missione di Barnaba ad Antiochia. Siamo nel 42: non vi viene mandato Pietro, bensì il cipriota Barnaba. Evidentemente, nonostante l’episodio di Cornelio, la Chiesa di Gerusalemme non reputa che uno dei dodici si applichi all’evangelizzazione dei Gojm. Pietro resta quindi accanto a Giacomo, entro il girone giudaizzante della Chiesa Madre; difatti nel 44, quando Giacomo viene decapitato, anche Pietro viene arrestato; significa che fino ad allora, Pietro era sempre rimasto in Palestina, sotto il doppio controllo dei giudaizzanti e del Sinedrio.
Perciò: nel 42-43 Pietro non è a Roma; la presenza di una comunità cristiana a Roma – qualora sia mai esistita in quegli anni – ha origini ignote, più ancora che quella antiochena, i cui fondatori sono ignoti missionari, dei quali però si conosce almeno la provenienza: Cipro e Cirene (Act. XI, 19). In ogni caso Pietro non ha fondato la comunità romana.
Nel 44 dopo la liberazione dal carcere di Gerusalemme, egli non va a Roma bensì ad Antiochia: lo affermano i più illustri Padri della Chiesa, compreso Papa San Leone e vi resta per sette anni (come lo afferma pure Papa San Gregorio Magno).
Nel 45-49 Pietro non è a Roma, egli è ad Antiochia dove ha il suo recapito ufficiale; anche la liturgia romana ricorda questo, fin dal quarto secolo, il 22 Febbraio. E’ questa la festa originaria tradizionale dal titolo: “Natali Petri de Cathedra”.
Le Chiese Gallicane però, forse per non celebrare questa festa in Quaresima, la anticipavano al 18 Gennaio, ispirandosi alla Liturgia Orientale che celebra il 16 Gennaio “La prodigiosa liberazione di San Pietro dal carcere”. I due usi si svolsero indipendenti e paralleli per più secoli, ma finirono per perdere l’unità primitiva di significato cosicchè, invece che di un’unica Cattedra di San Pietro in Antiochia ne risultarono due di cui una fu arbitrariamente attribuita a Roma, quella del 18 Gennaio. Oggi abolita dopo il Concilio Vaticano II, la festa del 18 Gennaio è stata abolita; è rimasta solo quella del 22 Febbraio, ma senza più un’indicazione antiochena o romana.
Ad Antiochia, Pietro ritornerà anche dopo il Concilio di Gerusalemme. Negli anni della Cattedra Antiochena, Pietro visita i suoi primi convertiti fin dal giorno della Pentecoste, sparsi nelle regioni orientali. Evidentemente, non visita tutte le regioni, al termine del suo giro apostolico, manda la sua prima epistola da Babilonia, indirizzandola ai fedeli del Ponto, Cappadocia, Asia e Bitinia. Questa lista d’indirizzi, se confermata con Act. II 9-11, risulta assai incompleta: tralascia i fedeli di Egitto, Libia, Cirenaica, Roma e Creta.
Ciò porta a concludere che fino alla vigilia del Concilio di Gerusalemme (a.50), Pietro ancora non era stato a Creta o nell’Africa Settentrionale, ma neppure a Roma. Si obietta che Babilonia significa Roma, tanto nella scrittura (Apocalisse), quanto nella Patrisitica, nel linguaggio rabbinico, come pure nella tradizione codiciale.
Ebbene, nella Patristica il primo a dire Babilonia per Roma è Papia di Gerapoli, discepolo dell’apostolo Giovanni che scrisse l’Apocalisse; ma l’Apocalisse, come ci informano Sant’Ireneo e San Vittorino fu scritta alla fine del Regno di Domiziano (+96), cioè quasi mezzo secolo dopo della I Petri; dunque Babilonia della I Ptr. non riguarda Roma. Modus dicendi del linguaggio rabbinico? Sì, però non anteriore al 70 E.V. come appare degli Oracoli Sibillini, composti con la caduta di Gerusalemme e la fine del primo secolo. Circa poi la variante “ROMI”, essa è solo in due codici greci minuscoli, assai tardivi.
Si obietta che all’epoca di San Pietro, Babilonia era un cumulo di rovine. Ebbene, a parte il fatto che Babilonia indicava allora una regione vastissima come l’Arabia Paolina che andava da Damasco al Sinai, Babilonia era pure un centro fiorentissimo della diaspora ebraica. Giuseppe Flavio Ben Gurion scrive che al tempo del primo Erode “molte migliaia di membri del popolo ebraico si erano stabiliti in terra babilonese” ed Erode ne scelse uno pure a fungere persino da Gran Sacerdote: Ananele. Quindi Babilonia della prima Petri non significa “Roma” e non c’è nessun motivo per negare che tale epistola sia stata veramente scritta dan San Pietro, presso la Chiesa Giudeo Cristiana di Babilonia.
Nel 50-51 Pietro non è a Roma: è a Gerusalemme per il Concilio Apostolico (Act. XV); è anche ad Antiochia, dove Paolo lo apostrofa con violenza; è insomma, dove c’erano gli ebrei espulsi da Roma, nell’editto di Claudio del 49. (Act. XVIII, 2).
Nel 52-53 Pietro è in Oriente ancora; all’ora dei pasti si presenta alle mense delle varie comunità, assieme alla moglie; lo desumiamo da Paolo, che nella Pasqua del 53 da Efeso (dove si era fermato tre anni) scrive la prima epistola ai Corinzi in cui, tra l’altro, domanda risentito: “Forse non abbiamo la potestà di mangiare e di bere? O non abbiamo la facoltà di portarci attorno, una fedele donna, come gli altri apostoli e fratelli del Signore, e Cefa?” (I Cor. IX, 4,5).
La II di Pietro, verso la chiusa, ha un accento malizioso a Paolo: “Il nostro diletto fratello Paolo, pure vi scrisse secondo la sapienza datagli, parlando così come fa in tutte le sue lettere, nelle quali comunque, ci sono cose difficili a capirsi” (II Ptr. III, 15-16). Ora questa II Ptr. è certamente del 54, perchè nell’autunno del 53 Paolo ha scritto la II ai Corinzi la quale epistola è la quarta che Paolo scrive, dopo le due ai Tessalonicesi nel 52 e la I ai Corinzi nella Pasqua del 53.
Effettivamente, in codeste lettere, ci sono alcuni punti di difficile interpretazione. La I Ptr. ha un presentimento di morte imminente (I, 13-15); quindi Pietro è in carcere, in attesa di giudizio o addirittura di esecuzione. Dove? Se pensiamo che proprio in questo tempo sotto Claudio, l’apostolo Giovanni viene portato a Roma per subire il supplizio della caldaia d’olio bollente e che viene graziato con l’esilio a Patmos, unicamente perchè ne esce vivo e ancora più vegeto, dobbiamo concludere che anche Pietro fu condotto a Roma, regnante Claudio, per subire un micidiale martirio. Proprio nel 54 si rinnova l’editto di Claudio di espulsione dei Giudei da Roma (Act. XVIII, 2): Judeos, impulsore Chresto; assidue tumultuantes, Roma expulit. N.B: I coniugi Giudeo Cristiani, Aquila e Priscilla, sono nuovamente a Roma nel 58 (Rom. XIX, 3).
San Clemente Romano, nel 95-96 così scrive ai Corinzi: “Osserviamo i SS. Apostoli, specialmente Pietro che, per ingiusta invidia, subì pene acerbe, non una volta o due, ma molte volte, e che, compiuto il suo martirio, se ne andò al suo luogo di gloria che gli spettava” (C. IV).
Ora, Claudio muore nell’ottobre del 56; Pietro dunque muore prima, probabilmente già nel 55; lo deduciamo dalla lettera che Paolo da Efeso scrive ai Galati. N.B.: alcuni Giudeo-Cristiani della Galazia inculcavano l’obbligo della circoncisione e della osservanza mosaica a tutti i battezzati; dicevano che anche Giacomo e Pietro, la pensavano così. Paolo smentisce energicamente, affermando che Giacomo e Pietro (che egli aveva incontrato fin dalla prima visita a Gerusalemme [Gal. I, 18-20] e che ora non sono più), si dichiararono d’accordo con la non obbligatorietà della circoncisione. Il passo che ci interessa è in [Gal. II, 6-9]: “Giacomo e Cefa e Giovanni, quelli che sembravano essere qualcosa, lo erano un tempo, non obiettarono nulla a quanto esposi, e porsero a me e Barnaba le destre“. La lettera ai Galati è del 56, ma Giacomo Zebedeo era già morto (fu ucciso nel 44); dunque anche Pietro era già morto nel 56 .
Non si obbietti che Paolo accenna pure all’ancora vivo Giovanni; intanto, è da osservare che l’accenno è per transenna soltanto; e poi, è indubitato che Giovanni veniva allora considerato un “fuori serie” rispetto alla morte. Infatti se era ancora vivo, dopo la spietata flagellazione ed il bagno nell’olio bollente, lo era unicamente per intervento soprannaturale; i carnefici stessi ne furono così meravigliati, da graziare il condannato a morte, relegandolo a Patmos. Anzi, tutto ciò, conferma la voce corrente tra gli apostoli: “Giovanni non sarebbe morto, fino al ritorno di Gesù”, voce che sarà ridimensionata solo mezzo secolo dopo, dallo stesso Giovanni, quando ad Efeso, scriverà il Vangelo. Conclusione: i 25 anni di episcopato romano di San Pietro sono inammissibili biblicamente, anche 25 mesi sarebbero troppi: non combinano con la cronologia degli Acta e delle epistole paoline: restano al massimo 25 settimane di permanenza romana; quelle di attesa del processo e della condanna, tenendo conto anche del martirio della moglie di Pietro.
Il 25 Settembre del 54-55: questa la presenza di San Pietro in Roma; in questi termini, in questo scorcio di tempo soltanto. Il fatto pure che i viaggi marittimi dalla Palestina all’Italia duravano, in certe stagioni, anche sei mesi, non può consentire altra conclusione, per i brevi intervalli lasciati dalla cronologia neotestamentaria ad un ipotetico “Vescovo di Roma”.
Pietro è presente a Roma solo perchè arrestato in Oriente, vi viene condotto in catene per subire processo e condanna a morte. Così allora per Giovanni Zebedeo; così, una dozzina d’anni dopo, sarà per Paolo da Troade (II Tim. IV, 13): è presenza di morituro. Quindi il martirio romano dei due corifei, può essere avvenuto lo stesso giorno (29 Giugno), ma in anni e luoghi diversi: Pietro morto martire prima del 56, sul colle Vaticano; Paolo nel 67, fuori le mura. Antiochia può contare la presenza attiva dei due corifei cosicchè tuttora il Patriarca di Antiochia, si fregia del titolo primaziale di “Padre dei Padri e Pastore dei Pastori”; i due apostoli non vi hanno versato il sangue; ma in Roma, sì! Per questo Roma è la prima sedes. Pietro e Paolo sono i dioscuri della Cattedra Romana (San Giovanni in Laterano). I graffitti catacombali sono sintomatici al riguardo: le invocazioni a Pietro e a Paolo, pressocché si equivalgono numericamente, e anche i disegni li mostrano a pari merito: Cristo dà le chiavi, talora a Pietro, talora a Paolo. Oppure il rotolo della Legge, talora a Pietro, talora a Paolo, ugualmente. Nel Medioevo, il Papa era detto “Vicarius Petri” quando era in Urbe; “Vicarius Pauli” quando era fuori sede.
I Papi tuttora, nei documenti solenni o quando prendono decisioni importanti, usano la formula: Auctoritate Sanctorum Apostolorum Petri et Paoli. Inoltre fino all’epoca di Bonifacio VIII, i Papi siglavano la firma con la triplice “P”: Petro Paoloque Princibus (ablativo assoluto di tutto rispetto che mette ben in evidenza, le Radici del Principato Ecclesiale Romano). Ora egli sigla in doppia “P” per togliere ansa alla malignità della papessa Giovanna: Papissa Peperit Papellum.
Comunque sia, da tutto ciò si vede che, parlando dell’autorità papale, non basta dire: Tu es Petrus, ma bisogna aggiungere subito: Tu es Paulus. Del resto è eloquente il fatto che, non ci fu Papa a Roma, prima della morte di Paolo: infatti bisogna dire che San Lino comincia il suo pontificato nel 67, dopo il martirio di Paolo.
Dunque i due corifei sono i Dioscuri della Cattedra Romana; e l’espressione di tale cattedra è la Basilica di San Giovanni in Laterano. Anche quando i Papi saranno ad Avignone, durante circa 70 anni, per continuare ad essere Papi, (quindi Vescovi di Roma) saranno necessitati a prendere quanto prima, possesso del Laterano, almeno attraverso un procuratore, altrimenti non avrebbero potuto legittimamente esercitare il primato papale. Perchè la potenzialità papale non proviene da Cristo, bensì dalla Cattedra Romana, dal momento che la Chiesa di Roma è fondata sul sangue dei due corifei apostolici: Pietro e Paolo.
E’ questa duplice base che rende Roma superiore alle altre Chiesa Apostoliche. E’ la sedes che dà preminenza al Sedens (Papa) e non viceversa! Solo in virtù della Sede, il Papa è il primo dei Vescovi nel Collegio Episcopale, è il primo dei Padri nel Concilio Ecumenico; è il Primo dei Patriarchi della Pentarchia. E tutti questi Primati non perchè il Papa sia successore di Pietro, nè Vicario di Cristo, anzi il Concilio Vaticano Secondo, contro ogni manualistica della controriforma, sorprendentemente afferma che i vescovi, in quanto successori degli apostoli, non sono vicari del Papa bensì i Vicari di Nostro Signore Gesù Cristo (Lumen Gentium c. 27, paragrafo 532).

venerdì 19 ottobre 2012

Chi è colui che ci induce in tentazione?

Perché non é corretto pregare "non ci indurre in tentazione"


        Il nostro Signore tramite il suo sacrificio ha liberato l’uomo dalla tirannia del diavolo rendendolo libero. L’uomo prima dell’incarnazione e del sacrificio del Verbo era sotto la tirannia del demonio, come uomo caduto, avendo il demonio dentro di sé che lo tentava violando la sua libertà. Con il battesimo l’uomo scaccia il demonio e si veste di Cristo. Cristo con il battesimo prende il posto del demonio dentro di noi e ci libera dalla sua tirannia, ridando all'uomo la libertà. Così l’uomo può usare il libero arbitrio, è libero e può scegliere se seguire la via del Signore o la via del peccato. Il demonio continua a tentarlo attaccandolo e tentandolo, cercando di indurlo a cadere preda della passione ma non può violare il libero arbitrio dell’uomo.  L'esito finale della battaglia dipende dall'uomo stesso. È l’uomo che decide quale via intraprendere: può scegliere la via della morte o la via della Vita, la via che conduce ad essere servo delle passioni o la Vita che conduce alla libertà in Cristo. Possiamo scegliere se essere figli del demonio o figli di Dio.
Il demonio cerca in tutti i modi di buttare l’uomo  nel peccato e nella sofferenza. Con i pensieri cattivi attacca la mente dell’uomo cercando di entrare nella sua anima, al fine di farlo inghiottire dal mare delle passioni.
    
     Se il demonio è dunque il tentatore, il menzognero, perché alcuni nella loro preghiera chiamano Dio tentatore dicendo “non ci indurre in tentazione”? 
    
    È possibile che il Signore che, per amore dell’uomo, desiderando la sua salvezza, è sceso in terra incarnandosi, prendendo forma di servo, e versando, di suo volere, il suo sangue sulla croce possa indurre l’uomo alla tentazione e al peccato?  Dio è il nostro liberatore e salvatore.
     
     Preghiamo dunque il Signore di non esporci in una tentazione che non siamo in grado di superare e che ci liberi anche dalla tentazione del demonio di pregare chiamando Dio tentatore. Amin

mercoledì 23 maggio 2012

TRADURRE E TRADIRE






Riguardo alla traduzione di testi liturgici e Sacra Scrittura.

Esistono diversi testi sia della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio, sia di vari testi liturgici e della Sacra Scrittura; tradotti dai testi originali si proclama. Sicuramente in passato ci sono stati diversi errori nel tradurre il testo greco, originale, in latino per la non perfetta conoscenza della lingua  greca.
 Vedi a questo proposito la preghiera Domenicale e l’esegesi del Padre nostro da Sant’Ambrosio (Libretto: La Fede dei Padri). Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane essenziale, e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non ci esporre in tentazione, ma liberaci dal maligno.
Vedi anche Luca 17, 20-21, il testo originale in greco dice:Ἐπερωτηθεὶς δὲ ὑπὸ τῶν Φαρισαίων, πότε ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ, ἀπεκρίθη αὐτοῖς καὶ εἶπεν, Οὐκ ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ μετά παρατηρήσεως· οὐδὲ ἐροῦσιν, Ἰδοὺ ὧδε, ἤ, Ἰδοὺ ἐκεῖ. Ἰδοὺ γὰρ, ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ ἐντὸς ὑμῶν ἐστίν. Traduzione CEI e non solo: Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». Chi ha una minima conoscenza di greco, anche scolastica, si chiederà come mai ἐντὸς ὑμῶν è stato tradotto è in mezzo a voi invece di è dentro di voi. Una mia piccola ricerca fa risalire questi, ma anche altri, errori alla Vulgata, in altre parole al beato Gerolamo. Ma mi pongo la domanda perché anche nei giorni nostri si continua a portare avanti errori del genere? I professori che traducono la Sacra Scrittura dai testi originali è possibile che non conoscano il greco? Non sarà forse che per il Vaticano riconoscere gli errori, anche errori di questo genere, è sempre difficoltoso?
Consideriamo adesso anche le odierne traduzioni di testi liturgici.
Ci si ostina a chiamare la Vergine Maria “Madre di Dio” cancellando il fatto che l’argomento è stato affrontato da un Concilio Ecumenico e che i Padri nel Concilio Ecumenico del 432, riunito nella città di Efeso, dichiaravano: “Professiamo la Vergine Theotokos poiché il Verbo di Dio si è incarnato diventando uomo in lei ..”. “Theotokos”, cioè colei che ha partorito Dio incarnato. Questo termine è stato adottato dalla Chiesa universale di allora. La Chiesa doccidente adoperò il termine Deipara che in latino significa appunto “colei che ha partorito Dio”.
Nelle varie traduzioni dell’Inno Acathistos, al di fuori di quella dell’Antologhio, l’arcangelo si rivolge alla Vergine con Ave o Salve ignorando le considerazioni dei teologi bizantini riguardo al saluto dell’angelo. Giovanni Geometris riguardo al saluto dell’Angelo dice: “Gioisci, perché la gioia hai concepito, la gioia è cresciuta nel tuo ventre, la gioia che oltrepassa ogni intelletto e parola hai generato ..”. L’arcangelo Gabriele porta alla Vergine il gioioso annuncio ed insieme a lei gioiscono le schiere angeliche e ogni uomo in terra. Gioiscono tutti, piccoli e grandi, servi e potenti, poiché la Vergine diventa motivo di gioia spirituale per l’ecumene. Gioisci perché partorirai il Salvatore.
Ci si ostina a chiamare il Signore “amico dell’uomo” nella quasi totalità dei testi tradotti, ma il rapporto fra il Signore Iddio e l’uomo non è un rapporto di amicizia ma di amore, di eros dicono i Padri della Chiesa. Il rapporto fra Dio e l’uomo è un rapporto di amore come ci conferma anche l’evangelista Giovanni: “Dio ha così amato l’uomo da mandare il suo Figlio unigenito..”. Dio non si incarna per amicizia ma per amore, non subisce la passione perché è amico dell’uomo ma lo fa perché lo ama. Dio è colui che ama l’uomo. A me personalmente il termine “Filantropo” sembra il più appropriato anche se oggi giorno ha un significato, nella lingua corrente, diverso ma ha la sua valenza nel linguaggio ecclesiastico. “Filantropo” infatti è composto da due parole: “fìlos” e “antropo” che significa colui che ama l’uomo.
Il termine “Kirie eleison” (un termine che è stato usato fino a qualche anno indietro da tutta la Chiesa, d’oriente e d’occidente) è tradotto con la parola pietà, ma anche il termine ἱλάσθητι che significa compassione è tradotto allo stesso modo pietà. “Kirie eleison” risulta essere di difficile traduzione poiché il suo significato esatto sarebbe: Signore abbi compassione di me peccatore e donami nella tua misericordia e amore quello di cui ho bisogno: amore per amarti, pace, forza per resistere alle trappole del demonio, purezza ecc..
La traduzione più appropriata di “eleison”è “abbi misericordia” e a questo proposito seguirà un testo di padre Ambrosio di Torino che ha affrontato e approfondito l’argomento.
Mi chiedo perché si continua a usare questi e altri termini che alterano la teologia fin qui tramandata dalla Chiesa? Perché anche gli ortodossi (non tutti) che dovrebbero essere i più attenti a custodire usano queste traduzioni?

Note sull’uso di pietà e misericordia dell’ Igumeno Ambrogio

DOMANDA
Caro padre Ambrogio,
nelle tue traduzioni, il greco elèison è tradotto con “abbi misericordia”. Perché non segui la maggioranza delle versioni correnti, che traducono “abbi pietà”?

RISPOSTA
La terminologia “abbi pietà” è lo specchio di un uso molto povero e decadente della lingua italiana, nel quale ha non poco peso l’inserimento della mentalità feudale che ha progressivamente estraniato l’Occidente cristiano dall’Ortodossia.
Il latino pietas indica precisamente la devozione (evlavia in greco e in romeno, blagochestie o l’equivalente blagogovenie in slavonico), cioè l’atteggiamento di giusto rapporto con la divinità (ovvero, come ancora oggi si dice in italiano, l'essere “pio”). Tale qualità non ha correlazione con l’esercizio della misericordia (in slavonico e romeno mila: la sua sfera semantica può comprendere: amore, tenerezza, indulgenza, commiserazione, compassione…) se non nel senso lato e popolaresco di “appello alla pietà” di una data persona, di cui si vuole stimolare il senso religioso perché usi compassione. Il fatto di volersi appellare alla pietà (=devozione?) di Dio indica quanto improprio sia l'uso di questa espressione corrente.
In latino – spero non ci sia dubbio tra alcuno studioso – pietas e misericordia non erano affatto sinonimi. Sulpizio Severo, al punto 27/2 della Vita Sancti Martini episcopi et confessoris, scrive di san Martino: numquam in illius ore nisi Christus, numquam in illius corde nisi pietas, nisi pax, nisi misericordia inerat. Se nel cuore di san Martino non c’era altro che pietà e pace e misericordia, pare piuttosto evidente che pietà e misericordia – ameno alle orecchie di un autore cristiano del IV-V secolo come Sulpizio Severo – non siano la stessa cosa, così come nessuna delle due è la stessa cosa della pace.
Prendiamo come altro esempio – soprattutto perché riguarda un appello accorato – una delle colonne del pensiero cristiano ortodosso in (ottima!) lingua latina, i Dialoghi di san Gregorio Magno. Nel primo capitolo del libro III, san Paolino di Nola accompagna una vedova in Africa per ottenere la liberazione del figlio della donna, prigioniero del genero del re dei Vandali. La donna prega il barbaro con le parole: solummodo pietatem in me exhibe, “soltanto mostra pietà nei miei confronti”, ovvero “abbi soltanto pietà di me”. Versione perfetta e antica e ortodossa, MA… riferita al genero di Genserico, NON a Dio onnipotente!
Nessuno, nell’antichità cristiana, avrebbe avuto la sfacciataggine di chiedere la pietas di Dio (…a chi dovrebbe essere devoto, Dio?): si chiedeva piuttosto la sua misericordia (termine latino così come italiano), e questo è quel che fa ogni autore ortodosso in Italia fino al tempo del feudalesimo. Poi, con il moltiplicarsi degli appelli alla pietas per stimolare il potente di turno a essere pius e a non scannarti, la misericordia inizia surrettiziamente a cedere il passo alla “pietà” nel periodo più oscuro dei latinismi liturgici.
Uno dei meriti del Compendio liturgico ortodosso (1990) – per il quale non sarà mai ringraziato abbastanza – è quello di avere messo in discussione nell’ambiente ortodosso italiano la traduzione di èleos con il termine “pietà”. Al suo posto propone il termine “misericordia”, nulla di fantasioso, ma semplicemente la corretta traduzione latina (e italiana) di èleos. In tal senso non si è mosso solo un gruppo di ortodossi: così traducevano già da tempo serie figure del mondo cattolico come padre Giovanni Vannucci, osm (1913-1984) e don Divo Barsotti (1914-2006), buoni letterati e poeti oltre che esperti di lingua liturgica.
Non vedo buone ragioni, in una nuova traduzione della Liturgia, di tornare al linguaggio sacrocuorista delle versioni precedenti. In tale linguaggio non c’è nessun dogma conclamato, senz’altro, ma perché, se ce l’abbiamo teologicamente con i sacri cuori, dobbiamo meschinizzarci linguisticamente a parlare da sacrocuoristi? Forse che i modi con i quali ci esprimiamo non hanno alcun nesso con il modo di vivere la nostra fede? Non riesco a spiegarmi perché gli ortodossi di oggi, talvolta attenti in modo maniacale a cogliere i pensieri dell’Occidente latino (radici di eresie vere o presunte) devono poi bersi supinamente le espressioni linguistiche che vengono dalla stessa fonte, invece di usare i termini altrettanto accettabili dell’antico Occidente ortodosso.
Queste piccole ma importanti considerazioni sono il sine qua non di una sensibilità linguistica alle cose sacre. Se una retta dottrina porta a una retta pratica, una buona semantica non può che aiutare una buona intelligenza della fede.
Vogliamo poi vedere che razza di caos viene a crearsi nelle nostre traduzioni con l’inclusione di questa piccolezza, la “pietà di Dio”, di questo “iota”, di questa innocua espressione che tanto “ormai è entrata nell’italiano corrente”?
1 – Quei punti che meriterebbero davvero la traduzione letterale di “pietà” – per esempio la petizione per quelli che entrano in chiesa “con fede, pietà e timor di Dio” – diventano oscuri. Di solito si mantiene in questi punti il termine “pietà”, e non si riesce più a capire in cosa questa pietà dovrebbe distinguersi da quella riferita a Dio negli altri punti in cui si è tradotto eleos in questo modo.
2 – Quando si traduce eleos con “pietà” non si riesce mai ad andare a fondo nella coerenza. Perché “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia” e non: “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande pietà”? Si tratta dello stesso termine.
3 – A “misericordioso” cede il passo “pietoso”, oggi piuttosto sinonimo di “oggetto di compassione” (come in: “avere un aspetto pietoso”), e chi non si sente di parlare di un “Dio pietoso” se non in apnea, ritorna spesso e volentieri a usare il termine “misericordioso”, usando deliri di confusione del genere “abbi pietà perché sei un Dio misericordioso”.




martedì 22 maggio 2012

Divina Eucaristia


Quando Cristo ha parlato per la prima volta agli uomini del mi­stero della Divina Eucaristia, ha chiamato se stesso pane della vita, pane disceso dal cielo per offrirsi per la vita del mondo: « Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono.  Questo è il pane che discende dal cielo, affinché uno ne mangi e non muoia. Io sono il pane vivente che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; or il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?». Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Poiché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato ed io vivo a motivo del Padre, così chi si ciba di me vivrà anch'egli a motivo di me. Questo è il pane che è disceso dal cielo; non è come la manna che mangiarono i vostri padri e morirono; chi si ciba di questo pane vivrà in eterno » (Gv 6,48-51).
Cristo è il pane della vita che è disceso dal cielo, per la potenza del santo Spirito. È disceso, il giorno dell'annun­ciazione, nella Vergine più che benedetta, e la Vergine è divenuta terra buona e benedetta che ha germinato il pane della vita. Cristo è il pane della vita che discende continuamente dal cielo, per la potenza del santo Spirito. Discende, al momento dell’annunciazione eucaristica, nella vergine Chiesa, e la santa Chiesa diviene terra buona e benedetta che germina il pane della vita. È nella Divina Liturgia che si compie tale evento della discesa di Cristo e della sua presenza nella Chiesa. Perché la Divina Liturgia è Cristo in mezzo a noi: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino al­la fine del mondo » (Mt 28,20).

venerdì 30 marzo 2012

La Bibbia dei Settanta



Confronto con il Masoretico

Come è noto storicamente, circa 200 anni prima di Cristo, gli ebrei avevano tradotto le loro Scritture in lingua greca. Questa traduzione è stata chiamata Bibbia dei Settanta   (LXX). Questa traduzione dei Settanta era molto rispettata in tutto il mondo antico anche tra gli stessi ebrei, soprattutto tra coloro che comunemente utilizzavano il greco come lingua di comunicazione. Infatti le Scritture sono state tradotte in greco per renderle più accessibili al resto del mondo che utilizzava il greco come lingua universale delle persone istruite. Molti studiosi ebrei hanno basato sulla Bibbia dei Settanta i loro lavori. 
Circa 100 anni dopo Cristo, i rabbini ebrei cominciarono a riconsiderare l'accettabilità della Bibbia dei Settanta da parte degli ebrei. Ciò si è verificato in parte a causa del legame dei cristiani con la Settanta e in parte perché dichiaravano che Gesù è il Messia ed in lui si sono compiute le profezie dell'Antico Testamento.
Dopo la Riforma protestante, gli studiosi protestanti nel tentativo di screditare la Chiesa cattolica romana abbandonano la Bibbia dei Settanta e iniziano ad usare solo le versioni ebraiche per le loro traduzioni della Scrittura nelle lingue moderne. Il testo masoretico che divenne la versione ufficiale delle Scritture ebraiche si è definito tra il settimo e il decimo secolo d.C., e quindi non è un testo più antico della Bibbia dei Settanta, ma è un testo più recente. Il testo masoretico corrisponde all’ebraico / aramaico del II secolo d.C., ma si differenzia in diversi punti dalla Bibbia dei Settanta, a volte in modo molto significativo.
I moderni studiosi biblici continuano a consultare il testo dei Settanta, anche quando si basano sul testo masoretico perché la Settanta è un testo più antico del masoretico ma anche perché il testo dei Settanta è stato tradotto da un testo ebraico/ aramaico molto antico e permette quindi di conoscere come gli studiosi ebrei 200 anni prima di Cristo interpretavano e comprendevano le loro Scritture. La versione dei Settanta, non è stata tradotta dai cristiani perché il cristianesimo non esisteva a quel tempo, per cui i cristiani non hanno avuto nessuna influenza sulla traduzione in greco delle Scritture ebraiche. E 'accaduto però che i cristiani trovarono nella Bibbia dei Settanta una solida base per il pensiero cristiano e era piuttosto utile nella polemica contro gli ebrei nei secoli successivi.
Dai tempi della Riforma protestante alcuni studiosi biblici hanno diffidato del testo dei Settanta e non lo accettano come una Bibbia per i cristiani. Alcuni ritengono che sia troppo "cattolica romana". Altri pensano che sia una traduzione inaffidabile o l'interpretazione delle Scritture ebraiche, anche se è stata fatta dagli ebrei stessi e onorata dagli ebrei al tempo di Cristo. Inoltre, molti studiosi ritengono che gli autori del Nuovo Testamento, gli evangelisti, usavano il testo dei Settanta, come è dimostrato dal loro frequente utilizzo quando citano l'Antico Testamento.
Mentre leggevo la traduzione inglese di Robert Charles Hill del commento di s. Giovanni Crisostomo sui Salmi vol. 2 (pp 343-344), mi sono imbattuto in due sue note che di fatto fanno avvalorare l'importanza dei Settanta (LXX) per la nostra conoscenza del Vecchio Testamento. Entrambe queste note erano in relazione al Salmo 145.
"... nel nostro (masoretico) testo ebraico manca un versetto (il 13), che c’è lo fornisce la LXX, come è confermato dai manoscritti ebraici scoperti presso il Mar Morto."
"Questo è un versetto che si trova nella LXX ed è un manoscritto ebraico trovato a Qumran. Questo versetto non esiste nel testo masoretico ebraico di questo salmo alfabetico e nel punto in cui ci si aspetterebbe un inizio del versetto ma comincia con la lettera «nun»...."

 Ho letto vari argomenti circa la maggiore attendibilità delle Scritture ebraiche della versione dei Settanta e il motivo per cui gli studiosi protestanti preferiscono il testo masoretico per le loro traduzioni del Vecchio Testamento. Ma il testo dei Settanta che viene utilizzato ufficialmente da cattolici e ortodossi orientali ha dimostrato di essere una finestra buona sulle antiche Scritture ebraiche (Pre-masoretiche). Alcuni hanno sostenuto che i traduttori nel mondo antico erano più propensi a eliminare parti di testi (accidentalmente o di proposito). Ma almeno nei due casi che Hill cita riguardo i Salmi, alla Settanta si può fare affidamento su un testo più antico del testo masoretico delle Scritture ebraiche e ci fornisce quindi una visione migliore negli scritti sacri dell'antico Israele. La versione dei Settanta ha conservato qualcosa che il testo masoretico ha perso.

La stessa  Orthodox Study Bible  basa la traduzione delle Scritture dell'Antico Testamento sul testo dei Settanta a differenza delle versioni protestanti della Bibbia. L'O.S.B. segue così la versione cristiana antica e tradizionalmente storica delle Scritture, che è stata addottata dai primi cristiani. Questo non vuol dire che le comuni versioni in lingua inglese della Bibbia sono completamente sbagliate, semplicemente seguono i principi protestanti nelle loro traduzioni del Vecchio Testamento e quindi hanno una versione meno completa delle scritture dell'Antico Testamento.